LE NASCITE ECCEZIONALI
Nei
capitoli dedicati al cervello, alla mente e soprattutto alla parapsicologia, si
è visto che esistono funzioni alle quali è difficile fissare un
limite ben definito. Ma anche i fenomeni fisiologici più comuni, di
natura non cerebrale né mentale, che si svolgono lungo l'arco della vita
umana, dalla nascita alla morte, escono talvolta dalla normalità fino a
situarsi alle estreme frontiere della biologia umana. Si tratta di casi
straordinari che un tempo alimentavano le superstizioni popolari e oggi
arricchiscono le conoscenze scientifiche sulle possibilità, sia pure
eccezionali, dell'organismo umano.
Negli annuali
della medicina, il caso più estremo di maternità precoce fu quello
della peruviana Lina Medina che una settimana prima del suo quinto compleanno,
il 14 maggio 1939, nel reparto maternità dell'ospedale di Lima, diede
alla luce, mediante taglio cesareo, un bambino che pesava poco meno di 2 Kg. Il
neonato, perfettamente formato e in ottima salute, ebbe uno sviluppo normale. Su
questo straordinario avvenimento esiste la testimonianza del dottor Gerardo
Lozada dell'Accademia di medicina di Lima e di almeno 30 ginecologi delle due
Americhe.
La maternità più tardiva
è invece quella di Zuleikha Beridze, una contadina della Georgia
sovietica, sposata con un uomo di 79 anni, che il 17 dicembre 1966, a 66 anni,
diventò madre per l'ottava volta dando alla luce una bambina. Il
penultimo figlio, la Beridze l'aveva avuto a 60 anni. Prima di lei, la
maternità più tardiva giunta a conoscenza dei ginecologi era
quella di un'americana, Ruth Alice Kestler, che nel 1956, a Los Angeles, aveva
partorito anch'essa una bambina all'età di 57 anni e 129
giorni.
Il neonato più piccolo che sia
sopravvissuto fu quello di una inglese, Marion Chapman: nacque il 5 giugno 1938
a South Shields, dopo 6 mesi di gravidanza, e pesava solo 238 grammi. Il neonato
più grosso fu partorito il 21 aprile 1967 da Josefina Soto in una clinica
di Lima, in Perù: era una bambina del peso di 11 Kg. circa. Superava di
poco il neonato messo al mondo il 3 giugno 1961 da una donna della regione di
Adana, in Turchia, il cui peso era di 10,880
Kg.
Fra le anomalie di sviluppo dei neonati, una
delle più curiose è la dentizione precoce. L'esempio storico
più celebre è quello del re di Francia Luigi XIV, nato nel 1638
con 2 denti. Uno dei più recenti riguarda Silvano Formia, un bambino di
Chivasso, in Italia, che alla nascita, avvenuta il 9 dicembre 1966, aveva un
dente in via di sviluppo. In questi casi, si tratta sempre di denti incisivi. Ma
nel 1956, all'ospedale Bellevue di New York, è stato segnalato un
bambino, Robert R. Clinton, che all'età di un mese aveva già un
molare.
La donna che ebbe il maggior numero di
parti e i cui figli giunsero tutti alla maggiore età, sembra sia stata,
secondo un rapporto del dottor E. Atkinson (pubblicato dal British Medical
Journal del 1883), una inglese di Surbiton, nel Surrey, sposatasi a 16 anni e
morta a 64, che partorì 39 volte mettendo al mondo 32 femmine e 7 maschi.
Ma il numero più alto di figli fu raggiunto (e il caso pare ben
documentato) da una donna russa, morta nel 1872, che in 29 gravidanze ebbe 69
figli, di cui 16 gemelli, 7 trigemini e 4
quadrigemini.
Riguardo ai parti multipli, la
nascita di 7 gemelli è la più rara, a differenza di altri
mammiferi (come cane, gatto, coniglio, maiale) nei quali la gemellarità
è la regola e spesso supera il numero di 7 neonati per parto, ritenuto il
limite estremo per la specie umana. La letteratura medica cita 2 casi di
gemellarità septupla e una diecina di sestupla, nei quali di regola
nessun neonato sopravvisse.
Relativamente meno rara
(circa 50 casi) è la nascita di 5 gemelli, nella quale però la
mortalità rimane altissima. Eccezioni giustamente celebri, perché
la sopravvivenza si mantenne totale, furono quelle delle 5 sorelle Dionne, nate
a Callender, nell'Ontario (Canada) il 28 maggio 1934; e dei 5 fratelli Diligenti
(3 femmine e 2 maschi), nati a Buenos Aires, in Argentina, il 15 luglio 1943.
Altri 2 casi di gemellarità quintupla con sopravvivenza di tutti i
neonati sono stati segnalati negli ultimi anni. La frequenza del parto gemellare
nella specie umana, genericamente considerata sulle nascite, è di 1 a 90.
In media, la nascita di 2 gemelli avviene ogni 80 nascite singole; di 3, ogni
6.400; di 4, ogni 512 mila; di 5, ogni 56 milioni. Queste cifre non indicano
però la frequenza reale del fenomeno, perché la gravidanza
gemellare, dal concepimento al parto, è in pericolo ben più di
quanto non sia la gravidanza semplice che è consueta per la specie umana:
infatti può accadere che tutto il prodotto del concepimento (2 o
più embrioni) muoia e quindi venga eliminato attraverso un aborto
spontaneo; oppure che una parte degli embrioni perisca, lasciando campo libero
allo sviluppo e quindi alla nascita di uno o più gemelli. Tanto nel primo
come nel secondo caso, la gravidanza gemellare rimane totalmente o parzialmente
sconosciuta.
La nascita gemellare segue un
andamento geografico e razziale. È più frequente nei Paesi freddi che in
quelli caldi, più nell'Europa settentrionale che in quella meridionale,
raggiunge il massimo in Scandinavia e il minimo in Giappone. La frequenza
relativamente più alta della gemellarità si riscontra nei negri;
prendendo come riferimento i bianchi, si trova che, in fatto di parti plurimi, i
negri sono superiori del 23,6 per cento ai bianchi, mentre le altre razze sono
inferiori del 4,4 per cento alla razza bianca.
Ogni
100 donne, 20 sono predisposte alla gravidanza gemellare. Questa, poi, si
verifica più spesso nelle donne che hanno già avuto più di
una gravidanza normale. Inoltre, una donna già madre di gemelli ha 1
probabilità su 17 di partorirne altri. La possibilità del parto
gemellare cresce con l'età: per una donna di 40 anni, la
probabilità di dare alla luce gemelli è da 3 a 4 volte maggiore
che per una donna di 20 anni.
Sui parti plurimi
influiscono fattori ereditari che la donna può avere ricevuto dal padre,
dalla madre o dal marito. La letteratura ostetrica cita casi di parti solo
gemellari, come quello della tedesca Helm, nata da un parto quadrigemino, che
sposò un gemello ed ebbe 11 parti di cui 2 quadrigemini, 6 trigemini e 3
gemellari, con un totale di 32 figli tutti gemelli. È stato segnalato anche il
caso di una dottoressa americana, Mary Austin, che in 33 anni di vita coniugale
diede alla luce 44 figli, cioè 13 coppie di gemelli e 6 gruppi di
trigemini.
Sempre nel secolo scorso, si è
registrato il caso di una donna siciliana che ebbe da 2 mariti 22 gravidanze
tutte gemellari. Il caso inverso fu quello del contadino russo Fedor Vasiliev
che nella seconda metà dell'Ottocento avrebbe avuto dalla prima moglie 69
figli in 27 parti (se ne è già accennato a proposito della
maggiore prolificità femminile) e dalla seconda altri 16 in 5 parti doppi
e 2 tripli: in tutto 85 figli, dei quali uno solo non
sopravvissuto.
Casi più recenti, meno
clamorosi ma ben documentali, non mancano. Per esempio, negli Stati Uniti, Alis
May Tremblay, sposatasi nel febbraio 1945, ebbe 2 gemelli nell'ottobre di quello
stesso anno, 2 nell'ottobre del 1946 e altri 2 nell'ottobre del 1947: 6 figli in
3 anni. Nel maggio 1956, una donna canadese dava alla luce per la settima volta
consecutiva una coppia di gemelli.
Le statistiche
indicano che i coniugati vivono più degli scapoli. Ma 100 anni di
matrimonio è un traguardo assolutamente eccezionale: lo raggiunsero, il
31 maggio 1967, Balakisci Orudzhev e sua moglie Amina, abitanti in un villaggio
dell'Azerbajgian (Unione Sovietica). Festeggiando un secolo di vita in comune,
lui aveva raggiunto i 130 anni, lei i 114. Dal loro matrimonio erano nati 12
figli, il minore dei quali aveva 61 anni. Il loro primato coniugale era stato
però già superato da un'altra coppia dell'Azerbajgian, formata da
Nasir e Kula Kasimov, entrambi di 119 anni, che nel 1964 avevano celebrato 103
anni di matrimonio.
La regione della Terra dove la
longevità è più alta è il Caucaso in cui, secondo
statistiche ufficiali, nel 1965 vivevano più di 60 mila persone di
età superiore ai 100 anni. Il primato in questo campo appartiene alla
repubblica dell'Azerbajgian con più di 3.000 ultracentenari, seguita
dalla Georgia (oltre 2.000) e dall'Armenia (circa 600). Specialisti in
gerontologia hanno creato a Tiflis, capitale della Georgia, un centro di studi
sulla longevità umana, sulle sue condizioni e sulle sue cause, da cui si
spera di trarre insegnamenti pratici sulla prevenzione della vecchiaia e sulla
cura delle malattie senili.
Nel 1964 fu completato
un documentario sull'uomo più vecchio del mondo, Scirali Muslimov di
Barzavu, un villaggio dell'Azerbajgian. A quell'epoca Muslimov aveva 159 anni e
oltre 200 tra figli, nipoti e pronipoti. La sua ultima figlia nacque quando egli
aveva già 124 anni, e anche questo è un primato assoluto di
paternità. Ma il primato di longevità maschile spetterebbe a Sayed
Ali Salehi Kutahi, un iraniano morto il 10 marzo 1959 all'età di 185
anni; quello femminile a una donna che, secondo un annuncio di radio Mosca,
morì il 1° dicembre 1957, a 190 anni
compiuti.
Si tratta però di notizie
insufficientemente controllate. In tutti questi casi manca la prova principale,
cioè il certificato di nascita autentico. La longevità umana
è un argomento di cui si compiace l'immaginazione popolare e che si
presta a equivoci (omonimia fra padre e figlio, ecc.) o più spesso a
mistificazioni commerciali e politiche. Secondo molti studiosi di gerontologia,
il limite massimo di longevità umana si aggira sui 110-:-115 anni e
teoricamente la scienza - che nei Paesi occidentali ha elevato la vita media a
circa 70 anni - sarà in grado di prolungarla non oltre i 120 anni
circa.
Scoprire il segreto della longevità
significa conoscere le cause e il meccanismo dell'invecchiamento. Ma si tratta
di un fenomeno ancora molto oscuro. Sulla senilità esistono decine di
teorie contrastanti, e nessuna sembra abbastanza convincente. Per esempio,
secondo la teoria «traumatica», l'invecchiamento sarebbe riconducibile
all'insieme degli innumerevoli traumi, grandi e piccoli, fisici e mentali, ai
quali ogni individuo va soggetto nel corso della vita. Un'altra teoria mette in
causa, invece, la mutabilità dei geni, cioè delle unità
ereditarie contenute in ogni cellula dell'organismo: i geni possono andare
incontro a mutazioni spontanee, ossia a variazioni nelle loro proprietà,
e la frequenza con cui tali mutazioni si rivelano è direttamente
proporzionale alla durata della vita individuale. E poiché molte di tali
mutazioni sono sfavorevoli, si suppone che con l'andare degli anni un numero
progressivamente crescente di cellule vada incontro alla decadenza, e che a
questo fenomeno inevitabile sia dovuto il deterioramento dei tessuti, degli
organi, dell'intero organismo.
Teorie come quelle
sopracitate escludono la possibilità di un intervento efficace per
ritardare il sopravvenire della vecchiaia. Quindi verrebbe annullato uno dei
principali obiettivi della medicina, il quale consiste non tanto nel prolungare
la durata della vita, quanto nel combattere gli effetti nocivi della
senilità per conservare all'individuo la sua piena efficienza. Ciò
che occorre, insomma, non è «aggiungere anni alla vita, ma vita agli
anni».
Nuove considerazioni teoriche e i
tentativi sperimentali da esse derivanti hanno fatto sorgere l'idea di un
controllo genetico dell'invecchiamento. L'uovo fecondato contiene già
tutti i «piani di costruzione» del nascituro. Ci deve essere dunque un
meccanismo, non ancora scoperto, che provvede a far entrare in azione geni
diversi al tempo giusto e nel punto giusto dell'embrione in sviluppo. Ebbene, si
può ritenere che questo controllo genico dello sviluppo non cessi nel
momento della nascita, o quando l'individuo è adulto, ma si prolunghi per
il resto della vita, fino alla morte.
Ci sono
giustificati motivi per dare credito a questa teoria. Uno dei principali si basa
sul fatto accertato che la longevità è ereditaria, e che colture
di cellule derivate da tessuti di individui più o meno giovani, dopo un
certo numero di moltiplicazioni vanno incontro a fenomeni di degenerazione tanto
più precoci quanto maggiore è l'età dell'animale o
dell'uomo da cui si è compiuto il prelievo di cellule da coltivare.
L'indagine sperimentale viene condotta mediante analisi degli acidi nucleinici
cioè del materiale ereditario di cellule appartenenti a individui di
diversa età. I risultati preliminari fino a oggi ottenuti non consentono
ancora di affermare se questa teoria del controllo genetico dell'invecchiamento
sia attendibile. Se lo fosse, la prospettiva di un prolungamento della
giovinezza e dell'età matura diventerebbe abbastanza credibile. Si
tratterebbe di individuare i geni la cui attivazione provoca la senilità;
e poi di riuscire, mediante interventi chimico-biologici, a impedirne la
attivazione, in modo che essi rimangano indefinitamente bloccati. Ma è
una prospettiva ancora molto lontana. A chi desideri vivere a lungo, il
genetista può rispondere con un paradosso: prima di nascere, sceglietevi
genitori e nonni molto longevi. E al medico non resta altro che raccomandare una
vita igienica: alimentazione parca ed equilibrata ritmi di lavoro e di riposo
ben regolati, allontanamento dai fattori intossicanti e traumatici della vita
posta sotto il dominio della civiltà
industriale.
Un altro gruppo di primati umani
è quello dei cosiddetti «scherzi di natura», un tempo oggetto
di superstizioni o di sfruttamento commerciale (di cui nel secolo scorso fu
maestro l'impresario americano Barnum) e oggi di pertinenza degli studi di
patologia. Si tratta, oltre che dei cosiddetti «mostri» (individui
nati con malformazioni vistose, talvolta di tipo doppio a causa di una
gemellanza incompleta) dei nani, dei giganti, delle cosiddette «donne
cannone» e così via, nei quali si notano eccezionali anomalie della
crescita.
L'uomo più alto di tutti i tempi,
sul quale esistono testimonianze irrefutabili, fu Robert Pershing Wadlow, nato
nel 1918 ad Alton, nell'Illinois (Stati Uniti) e morto nel 1940: aveva raggiunto
una statura di m. 2,70 e pesava Kg. 222,7. Fra le donne, il gigantismo è
molto più raro. Il primato femminile di altezza spetta alla tedesca
Marianne Wehde, nata a Benkendorf nel 1866, morta nel 1883, che misurava m.
2,55.
Il nano più piccolo citato dalla
letteratura scientifica (Georges Buffon nella Histoire naturelle) misurava solo
cm. 40 all'età di 37 anni. Meglio documentato è il caso del nano
inglese Geoffrey Hudson, nato nel 1619 a Oakham e morto nel 1682, che a 30 anni
era alto cm. 46. Il tedesco Walter Boehming, che affermava di essere il nano
più piccolo del mondo e che morì nel 1955 a 48 anni, aveva una
statura di cm. 52.
L'uomo più pesante, sul
quale era stato possibile effettuare controlli sicuri, fu Robert Earl Hughes di
Fish Hook, nell'Illinois (Stati Uniti), morto nel 1958, all'età di 32
anni: era alto m. 1,81 e il suo ultimo peso era di Kg. 484,9. La donna
più pesante fu una negra morta a Baltimora (Stati Uniti) nel 1888:
raggiunse Kg. 382,5. Il primato della leggerezza appartiene al gallese Hopkin
Hopkins: dopo la sua morte, avvenuta nel 1754, a 17 anni, pesava Kg. 5,44; per
14 anni, non superò i Kg. 7,7.
Negli ultimi
anni, i primati umani si sono arricchiti di un altro e più appassionante
capitolo: quello riguardante i limiti di resistenza dell'organismo a condizioni
ambientali inusitate. Sulla terra e nel mare, nell'aria e nello spazio, nelle
profondità delle grotte e sulle massime vette, nei laboratori di
fisiologia e nelle cabine di collaudo, decine di uomini hanno battuto nuovi
primati in nome della scienza e della tecnica di avanguardia, della conoscenza e
del progresso. Tali primati dimostrano nuovo che l'organismo umano, quando viene
sostenuto dall'intelligenza, dalla volontà e dal coraggio, è in
grado di sopravvivere a condizioni ambientali prima ritenute proibitive e, in
molti casi, di adattarsi ad esse brevemente o a lungo. Spesso, occorre
sottolinearlo, tali primati sono resi possibili dai mezzi che la scienza e la
tecnica mettono a disposizione di questi «esploratori» che fanno
arretrare le frontiere dell'impossibile.
La
resistenza al freddo è stata sperimentata dal meteorologo Robert Hansen
nell'Antartide, durante parecchie ore di marcia a circa _55 °C: le reazioni
fisiologiche furono una leggera perdita di peso e abbassamento della temperatura
corporea. La resistenza umana al calore, secondo i dati resi pubblici da
specialisti di medicina aerospaziale degli Stati Uniti, è di 2 ore a
circa 55° C, e di 15 minuti e mezzo a 128°C: nel primo caso, la
maggior parte dei soggetti ha avuto disturbi cardiaci transitori; nel secondo
caso sono stati registrati capogiri, nausee, disturbi della vista e dell'udito,
accelerazione dei battiti cardiaci, anch'essi
temporanei.
Prove compiute negli Stati Uniti
mediante sedili catapultati hanno dimostrato che l'organismo umano è in
grado di resistere a un vento di oltre 800 chilometri all'ora, ma che al di
sopra dei 600 chilometri orari il vento mantiene aperti gli occhi, torce il
naso, appiattisce i muscoli e strappa gli strati cutanei più sottili. Il
vento combinato con il freddo è stato sperimentato nell'Antartide e ha
permesso di riscontrare che un vento a 130 chilometri all'ora insieme con una
temperatura di _45 °C, rappresenta il limite della sopportabilità
perché provoca difficoltà respiratorie e disturbi
visivi.
La tolleranza al dolore è stata
misurata con vari sistemi. Uno di questi è il «dolorimetro»
dell'Università Cornell (Stati Uniti), nel quale i diversi livelli
d'intensità degli stimoli dolorifici, dal minimo al massimo, sono stati
suddivisi in 10 gradini eguali chiamati dol. Si è così riscontrato
che la sensibilità umana al dolore non supera i 10,5 dol (come nel caso
di coliche nefritiche, e che il dolore medio va dai 2 dol (p. es., un mal di
denti) ai 5 dol (p. es., una emicrania). Al di là dei 10,5 dol, non si
registra più alcun aumento di dolore, anche se le sue cause sono
accresciute.
Per ciò che riguarda il rumore
misurato in decibel (un decimo di bel, unità a scala logaritmica di
sensazione uditiva), esperimenti compiuti negli Stati Uniti dal Comitato di
coordinamento della navigazione aerea (New York) e dal Centro di sicurezza aerea
dell'Università Cornell, hanno dimostrato che il limite massimo di
resistenza è di 120-:-140 decibel, ma che dopo esperienze prolungate
insorgono stanchezza e disordini nervosi. Per avere un confronto, basti dire che
iI rumore di una voce umana a circa un metro di distanza corrisponde a 60-:-65
decibel; oltre i 90 decibel, non si riesce più a comunicare mediante la
parola; i motori degli aerei a reazione producono rumori che superano i 135
decibel.
L'udito e la vista sono molto sviluppati
nell'organismo umano, e della loro acutezza si è già parlato nel
capitolo dedicato ai sensi. Ora si può aggiungere un qualche altro dato
sull'argomento.
Per esempio, la voce umana è
udibile. quando l'aria è calma e priva di rumori, fino a 150 metri di
distanza; il linguaggio fischiato degli abitanti l'isola di La Gomera (Canarie)
fino a 8 chilometri; e si è riscontrato che in mare, in condizioni
atmosferiche eccezionali, il richiamo di un naufrago è percettibile a 17
chilometri di distanza. L'occhio umano, a sua volta, ha un potere di separazione
di 0,0003 radian (o arco di un minuto, cioè 1/60° di grado),
corrispondente a 100 micron (millesimi di millimetro) visti a una distanza di 25
centimetri: ciò significa che l'occhio umano è in grado di essere
stimolato da una sorgente luminosa che passa attraverso una apertura del
diametro di soli 3-:-4 micron.
La resistenza umana
alla privazione totale dei cibi, controllata su digiunatori volontari, si aggira
sui 40 giorni. Tuttavia si cita il caso dello sciopero della fame, durato 94
giorni di cui furono protagonisti, nel 1920, 10 detenuti (uno di essi
morì al 76° giorno) della prigione di Cork, in Irlanda. Inoltre
sembra che il primato mondiale sia di 102 giorni: fu rivendicato da Cornelie
Foster di 61 anni, una digiunatrice di Johannesburg, nel Sudafrica. Si crede
generalmente che lo stato di digiuno sia molto penoso: in realtà i crampi
della fame scompaiono dopo i primi giorni, e la sola sensazione avvertibile in
seguito è la progressiva perdita delle forze. Tuttavia vi sono eccezioni:
per esempio, in una pubblicazione del 1890, il fisiologo italiano Luigi Luciani
attesta che il digiunatore Lucci al 12° giorno di digiuno fece una
cavalcata di un'ora e 40 minuti, e al 23° giorno assistette a una
rappresentazione popolare e sostenne due assalti di
sciabola.
Se la mancanza di cibo è assoluta,
la morte sopravviene quando l'organismo ha consumato quasi completamente tutti i
suoi carboidrati e i suoi grassi e circa la metà delle sue proteine. Ma
se alla privazione di cibo si aggiunge quella di acqua, allora la resistenza
dell'organismo è di pochi giorni, perché gravissimi disturbi
funzionali si manifestano dopo un paio di giorni, quando la perdita di acqua
è del 10 per cento (circa 4,2 litri) e la morte sopravviene prima che
tale perdita abbia raggiunto circa il 20 per cento (8,4 litri), quindi prima dei
4 giorni. L'uomo che superò di oltre il doppio questi limiti fu il
marinaio cubano Prudencio Anguela Pédroma che dopo il naufragio del suo
battello, avvenuto il 21 giugno 1960, visse 9 giorni su una zattera senza alcun
nutrimento e senza acqua. Quando fu tratto in salvo, era in uno stato di estrema
debolezza, soffriva di allucinazioni e aveva un principio di
uremia.
Alla mancanza di sonno l'uomo resiste poche
ore perché sopravvengono disturbi nervosi e mentali. Sembra inoltre
dimostrato che il sonno è necessario anche per sognare, e che se un
individuo viene privato sperimentalmente dei sogni, durante la veglia è
soggetto a fenomeni allucinatori. Ma qual è il limite massimo di
resistenza umana alla privazione volontaria di sonno? Otto giorni e poco
più, a quanto pare. Nel 1959, nel corso di una prova fatta alla stazione
radio WZRO di Jacksonville, in Florida (Stati Uniti), David Hunt restò
senza dormire per oltre 9 giorni, 225 ore precisamente. Al termine
dell'esperimento aveva allucinazioni, perdita dei riflessi, diminuzione
dell'equilibrio, delle facoltà di percezione e di
ragionamento.
Ma le capacità di sopravvivere
non dipendono soltanto dalle potenzialità fisiologiche dell'organismo
umano, che spesso offrono manifestazioni straordinarie. Dipendono anche dalle
resistenze che la mente oppone alle avversità. Tipici furono i casi
studiati negli Stati Uniti, dei soldati americani fatti prigionieri dai
nordcoreani e morti non a causa di malattia, ma perché privi della
«volontà di vivere». Ma non mancano esempi di uomini usciti
vittoriosi da prove molto più ardue. Il primato in questo campo spetta
all'aviatore francese Guillaumet che, caduto sulla cordigliera delle Ande,
intraprese una «marcia di sopravvivenza» attraverso montagne deserte,
nutrendosi di radici, finché 60 giorni dopo riuscì a trovare la
salvezza. Un altro esempio è quello dell'australiano Mawson che
nell'Antartico, dopo aver perduto i suoi compagni, la slitta e i cani
marciò per 41 giorni prima di riuscire a raggiungere la base di partenza.
L'uomo che sopravvisse più a lungo su una zattera dopo un naufragio fu
Poon Lim, cameriere di bordo del mercantile inglese Lomond silurato
nell'Atlantico il 23 novembre 1942: fu tratto in salvo 133 giorni dopo nelle
acque del Brasile.
Di natura soprattutto
psicologica è anche la resistenza alla solitudine. In questo campo, un
primato diventato storico, anche perché ebbe la sua rappresentazione
letteraria nel Robinson Crusoè di Daniel Defoe, è quello di David
Selkirk che visse 5 anni (dal 1704 al 1709) in solitudine sull'isola Juan
Fernandez, nel Pacifico: Selkirk resistette all'isolamento imponendosi una vita
regolare, prendendo varie abitudini, compilando un calendario, e così
via. Un altro celebre primato di solitudine è quello dell'ammiraglio Bird
che nel 1934 visse 7 mesi in un igloo: malgrado il lavoro che l'assorbiva molto
e la compilazione regolare di un diario, egli finì con l'avvertire
disturbi dell'attenzione, della memoria, dell'orientamento e paura di uscire
all'aperto.
Negli ultimi anni sono stati compiuti
esperimenti di isolamento sensoriale. Per esempio alla Università Mcgill
di Montreal, in Canada, gli sperimentatori scelsero un gruppo di studenti
disposti a rimanere chiusi in una cella individuale dove vi era posto solo per
stare sdraiati su un comodo letto. Ogni volontario portava una visiera di
plastica che permetteva solo il passaggio di una luce diffusa e impediva di
vedere i particolari dell'ambiente; le mani erano rivestite con guanti di cotone
e circondate da polsini di cartone, più lunghi delle dita, che
permettevano un libero movimento delle articolazioni ma scarse percezioni
tattili. Il volontario udiva solo il lieve ronzio di un condizionatore d'aria
posto sopra di lui. Si ebbe così modo di constatare che la resistenza
massima a questo isolamento sensoriale era di 6
giorni.
Durante questo tempo, i disturbi principali
erano depressione, incapacità di concentrarsi, allucinazioni visive e,
con minore frequenza, uditive e corporali. Tali ricerche hanno messo in evidenza
la duplice funzione degli organi sensoriali: essi non si limitano a fornirci
informazioni specifiche sul nostro ambiente, ma hanno anche una funzione
aspecifica nel mantenimento della normale organizzazione di vigilanza del
cervello. Se non usiamo i nostri sensi per un periodo di tempo, essi non
lavorano più con la loro normale efficienza. La percezione è come
una capacità che comincia a declinare quando non viene esercitata, e che
per ripristinarsi richiede un periodo di riadattamento. Per ciò che
riguarda l'isolamento sensoriale assoluto, sembra che la sua durata non sia
superiore ai 7 giorni: la prova sperimentale fu fornita da una donna, Zelma
Arment, rimasta per tutto questo tempo rinchiusa in un ambiente buio e
completamente silenzioso, alla base aerea Wright-Patterson nell'Ohio (Stati
Uniti). A differenza di altri volontari maschili che avevano desistito dopo 2 o
3 giorni, la Arment dimostrò di sopportare molto bene tale ardura prova
sperimentale.
Le ricerche di biologia, di
fisiologia e di medicina legate con lo sviluppo dell'aeronautica e
dell'astronautica hanno permesso di accertare, fra l'altro, che l'organismo
umano è in grado di sopportare forti aumenti di gravità. La misura
convenzionale della forza di gravità, basata su quella esistente alla
superficie terrestre, è il g. Quindi per ogni corpo in riposo sulla
Terra, la misura di gravità è di 1 g. L'uomo non l'avverte,
perché si tratta della gravità normale dell'ambiente in cui
vive.
Ma la forza di gravità aumenta ogni
volta che l'organismo è sottoposto a variazioni di velocità, ossia
ad accelerazioni o a decelerazioni. Tali variazioni si traducono in variazioni
di peso: così, ad esempio, un uomo che pesa normalmente 70 chili ne pesa
700, cioè 10 volte di più, se una brusca accelerazione o
decelerazione lo porta dal normale 1 g a 10 g. Questi mutamenti della forza di
gravità si avvertono in misura modesta in molte circostanze, per esempio
quando guidando un'automobile si accelera bruscamente o quando si frena
all'improvviso. Tutti i traumi provocati da scontri o da cadute sono legati a
decelerazioni che durano frazioni di secondo e durante le quali l'organismo
è sottoposto a enormi aumenti di peso, da 25 fino a 700
g.
La più dura prova di resistenza
all'accelerazione e alla decelerazione fu superata nel 1954 dal medico
aeronautico John Paul Stapp alla base di Alamogardo, nel Nuovo Messico: legato
al seggiolino di una specie di slitta dotata di propulsori a razzo e posta su un
binario lungo 1.100 metri; Stapp compì il percorso in solo 6 secondi e
mezzo mentre il suo corpo veniva accelerato e decelerato al limite dei 1004
chilometri all'ora. Al termine dell'esperimento, che era il culmine di una serie
alla quale Stapp si era sottoposto volontariamente, si riscontrò che egli
aveva resistito a una decelerazione fino a 40 g, sopportando disturbi visivi,
respiratori e circolatori, ma privi di conseguenze dannose. Per ciò che
riguarda le prove per astronauti, il primato spetta a un volontario che nel
1959, in un laboratorio di Johnsville, in Alabama, sopportò per 12
secondi i 31 g nell'interno di una capsula piena d'acqua e montata su una
centrifuga che girava a 4.825 chilometri all'ora. In una capsula senz'acqua,
invece, sono stati raggiunti i 16 g.
La più
lunga caduta libera, compiuta a scopo sperimentale, è quella del capitano
Joe W. Kittinger dell'aeronautica militare statunitense: il 16 agosto 1960, nel
cielo di Tularosa, nel Nuovo Messico, Kittinger si gettò da un pallone
salito a 31.150 metri di altezza e scese per 25.817 metri in caduta libera
raggiungendo la velocità di 988 chilometri all'ora. La caduta durò
4 minuti e 38 secondi. Quando Kittinger aprì il paracadute, si trovava a
5.333 metri di altezza.
Il primato di sopravvivenza
a una caduta spetta al sovietico Jvan Chissov che nel gennaio 1942, tenente
aviatore con funzioni di navigatore a bordo di un bombardiere, si trovò
costretto a buttarsi fuori perché il velivolo era stato gravemente
danneggiato dalla contraerea tedesca. Chissov si trovava a circa 7000 metri e,
per evitare di essere bersagliato dai tedeschi, decise di aprire il paracadute
il più tardi possibile. Ma perse conoscenza e piombò al suolo. Per
fortuna cadde su una grossa slavina di neve fresca e farinosa e scivolò
su di essa lungo un ripido pendio. Perciò la sua caduta fu in gran parte
ammortizzata. Chissov ebbe parecchie fratture ossee, ma sopravvisse e
riuscì a ristabilirsi quasi perfettamente.
DAL MARE ALLO SPAZIO
La maggiore altezza da cui un
uomo sia caduto rimanendo incolume è di 5.490 metri. L'incidente avvenne
il 23 marzo 1944, quando il sergente d'aviazione Nicholas S. Alkemande si
gettò da un bombardiere inglese in fiamme nel cielo della Germania. Il
suo paracadute non si aprì, ma la caduta fu ammortizzata prima da un
abete, poi da uno strato di neve alta 65 centimetri. Alkemande non ebbe la
minima frattura.
Il suo caso, come quello del
sovietico Chissov, non ha nulla di miracoloso, perché è spiegabile
con la presenza di circostanze eccezionali nel luogo della caduta, che permisero
alle forze di decelerazione e di impatto di ripartirsi nel tempo e nello spazio:
un cumulo di neve morbida e un ripido pendio nel caso di Chissov; un abete e un
alto strato nevoso nel caso di Alkemande. Anche l'acqua ammortizza le cadute, ma
solo quelle che avvengono a pochi metri di altezza; e se poi il corpo cade di
piatto, allora la decelerazione e l'urto vengono ammortizzati in misura molto
inferiore a quella di un tuffo effettuato di testa. Il limite di sopravvivenza a
una caduta in acqua è stato segnato da un uomo che cadde da una scogliera
alta 56 metri e riuscì a resistere, nel momento in cui cadeva in acqua, a
una decelerazione da 109 chilometri all'ora a zero, durata 0,015
secondi.
La massima profondità del
sottosuolo dove l'organismo umano ha dimostrato di essere in grado di resistere
e di lavorare è di 3.500 metri circa. Questo primato è stato
raggiunto nel giacimento aurifero East Rand Proprietary di Boksburg, nel
Sudafrica, nel quale i minatori, dopo un periodo di acclimatamento, lavorano in
un ambiente con temperatura prossima ai 34 °C, alto grado di umidità
e ventilazione molto scarsa.
Per ciò che
riguarda le immersioni subacquee, il primato in apnea (cioè senza
respirare) è del francese Jacques Mayol che nel 1966 raggiunse m. 60,35
mediante una zavorra; in scafandro autonomo, da parte di alcuni sommozzatori, di
70 metri circa; in scafandro da palombaro, il primatista è lo svizzero
Hannes Keller, che il 30 giugno 1961 raggiunse i 222 metri nel lago Maggiore
(Italia). In camera di compressione, lo stesso Keller giunse sperimentalmente
all'equivalente di 300 metri. La massima profondità marina fu raggiunta,
il 24 gennaio 1960, da Jacques Piccard e Don Walsh che a bordo del batiscafo
Trieste toccarono il fondo della fossa Challenger, nel Pacifico: 10.912
metri.
La massima altezza dalla Terra raggiunta nel
corso di un volo orbitale fu di 1.370 chilometri, il 14 settembre 1966, da parte
degli astronauti americani Charles Conrad e Richard F. Gordon a bordo della
cabina Gemini-11 agganciata al veicolo Agena il cui motore forniva la
propulsione. A bordo di un aerorazzo - l'americano X-l5 - sganciato in quota da
un «aereo-madre», la massima quota raggiunta, il 22 agosto 1963, fu di
107.961 metri, da parte del collaudatore Walker. Su di un aereo a reazione, il
primato di altezza fu conseguito il 28 aprile 1961 dal sovietico G. Mosolov con
32.187 metri.
Terminiamo questo capitolo ricordando
che il primato certamente più nuovo, perché sottopone l'organismo
umano a condizioni del tutto inusitate, è quello di durata in volo
spaziale, cioè in stato di imponderabilità o assenza di peso: i
campioni di questa prova, che solleva complessi problemi di biologia e di
psicologia, sono gli astronauti americani Borman e Lovell, i quali nel dicembre
1965 trascorsero 330 ore e 6 minuti a bordo della cabina Gemini-7, percorrendo
206 orbite intorno alla Terra.